una regione unitaria e i suoi confini geografici non riflettono affatto la vocazione culturale e politica dei vari territori della regione. “Nella calabrese Cosenza - come nella lucana Potenza - si sente l’influsso di Napoli; a Reggio si vede e quasi si tocca la Sicilia (mentre Matera guarda alla Puglia).”
Un ragionamento non nuovo, che tende a mettere in discussione l’assetto istituzionale dell’Italia post-unitaria, così come è oggi con il suo sistema regionale, che non solo si è rivelato, a cinquant’anni dalla sua istituzione, fallimentare dal punto di vista politico e amministrativo, ma non riflette la vocazione e il sentire comune delle popolazioni. È vero, infatti, che particolarmente in Calabria l’elemento unificante dei vari territori si ritrova intorno al campanile e non già intorno alla “calabresità”, che rimane elemento fortemente identitario solo a livello letterario, dove prevale ancora la poetica del “ritorno” alla terra natia e sempre meno nella dimensione politica e sociale. Dove molto di più gli interessi e i problemi sono vissuti a livello individualistico e trovano una loro composizione e rappresentatività in termini comunitari locali. E il discorso riguarda essenzialmente i piccoli comuni dove la comunità si costruisce su ristretti gruppi, mentre si dilata e non si riconosce più a livello dei grandi comuni, Catanzaro, Reggio, Cosenza, Vibo, Crotone e Lamezia, la cui crisi di rappresentatività, oltre che alla evidente inadeguatezza della classe politica e dirigente, è legata alla crisi di identità delle varie componenti urbane e sociali, così come sono andate formandosi, soprattutto a cavallo di questo secolo. I Sindaci dei piccoli Comuni hanno acquistato un ruolo sempre più decisivo di rappresentanza delle istanze, ma anche delle diversità dei vari territori, al di là delle appartenenze politiche, che difficilmente l’istituto regionale, così come trasformato nella prassi politica degli ultimi anni, riesce a condurre a sintesi costruttiva. Neanche ad un livello di compromesso accettabile, che sarebbe il compito esiziale della politica. Da qui il grave scollamento tra regione e territorio e il crescere della sfiducia e la messa in discussione della funzione dell’istituto regionale, a fronte di un recupero crescente della dimensione provinciale, quale momento di coordinamento e di sintesi delle varie istanze locali comunali.
Sui muri delle città calabresi sono apparsi i manifesti di convocazione, da parte dei Sindaci, dei Comizi elettorali per le elezioni regionali ottimisticamente previste per l’11 aprile prossimo. Si tratta di un adempimento di legge, che poco riflette il comune sentire della politica regionale e, soprattutto dell’attuale inquilino della Cittadella, gaudiosamente facente funzioni. Che anzi si comporta come se il suo Governo dovesse tagliare il traguardo di fine consiliatura al 2025, dispensando onerose prebende per incarichi di consulenze fantasiose, consentendo che i propri dirigenti dilapidino ingenti risorse pubbliche in sontuosi arredi barocchi e cotillon. Mentre cresce lo sbigottimento e il discredito nei confronti dell’intera classe politica regionale, di destra e di sinistra, che sta segnando il punto più basso di credibilità e di affidabilità. Al netto delle continue censure della Magistratura inquirente.
A quaranta giorni dalla data ad oggi fissata per l’apertura dei seggi elettorali la sensazione è che tutte le forze politiche facciano il tifo per il Covid perché legittimi un ulteriore rinvio, magari sine die, per restituire la parola ai cittadini, come la più elementare regola democratica imporrebbe anche in Calabria, oltre che in Italia. Né sono significativi i volteggi da palcoscenico di Irto, De Magistris e Tansi che sembrano più prove da intrattenimento, prima che il vero spettacolo, con i veri protagonisti, abbia inizio. Ecco perché i segnali che arrivano dalla politica regionale, flebili vagiti da parte di un ceto minoritario, commissariato a tutti i livelli da Roma, che considera la Calabria come un insopportabile fastidio sociale e politico, di cui si farebbe molto volentieri a meno e che magari, in un riassetto dei confini geografici nazionali, si potrebbe affidare ai destini benevoli e antichi del Mediterraneo. Anche a Roma, perciò, specie all’indomani dell’ecumenica formazione del Governo Draghi, a pochi farebbe piacere di affrontare, sia pure in un territorio marginale, una competizione elettorale, in cui, bene o male, bisognerà scontrarsi con i propri simboli di partito e intestarsi un risultato per una battaglia che nessuno sente propria e per la quale sarebbe disponibile ad impegnare un tallero.
Questo è il clima che si respira tra la gente, che non capisce più i ritardi e l’ennesimo record negativo anche nella erogazione dei vaccini, specie alle popolazioni più fragili.
Ormai pare che solo questa sensazione di degrado e di abbandono sia rimasta la dimensione che ci accomuna e ci fa sentire addosso lo stigma dell’essere calabresi.