Una discussione difficile da aprire sulle macerie della “Questione Meridionale”, che tanto appassionò soprattutto gli intellettuali del Sud del Paese, che cercavano di porre all’attenzione della politica nazionale e delle istituzioni la dualità e il crescente divario tra le due parti dello Stato unitario e che erano andate vieppiù distanziandosi, soprattutto dal punto di vista economico e sociale. E già allora dagli studi e dalle indagini sul campo, appariva chiaro che era difficile rappresentare una “categoria” unica di Mezzogiorno, una situazione uniforme dell’Italia sotto i confini di Roma, mentre realtà come la Calabria segnavano diversità emblematiche in termini di sviluppo civile. Il dopoguerra, la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, il grande impulso alla rinascita del Paese dato dal mondo del lavoro e da una imprenditoria illuminata, i grandi flussi migratori hanno disegnato una nuova Italia aperta alla modernità e completamente diversa da quella studiata da uomini come Franchetti, Giustino Fortunato o Salvemini, padri della teoria della Questione Meridionale. Mentre anche nella nuova Italia del miracolo economico le diversità territoriali e sociali non erano affatto superate, e ancora la Calabria doveva costituire il punto più debole del tessuto economico e politico nazionale. La situazione si può dire che si sia del tutto aggravata con l’avvento delle regioni, con un progressivo trasferimento di funzioni e di risorse dallo Stato centrale alle realtà locali, in mano ad una classe dirigente impreparata e malata di clientelismo famelico. Si staglia in modo drammatico la “Questione Calabria” come sommatoria di ritardi e di inadempienze in cui si celebra la più grande mistificazione tra Governi nazionali e autonomie locali e non si è riusciti, artefice una più che deformante comunicazione dei media nazionali, a fare un focus oggettivo sulle condizioni della regione più povera d’Italia e studiare il percorso per eliminare quell’odioso gap. La presenza devastante della ‘ndrangheta ha offerto, per lo più, un comodo alibi per limitare i sostegni finanziari nazionali ed europei, facile preda della criminalità o di una classe politica molto permeabile alla corruttela e alla malagestione pubblica, ma anche per commissariare le maggiori funzioni pubbliche e di fatto limitare le libertà e i diritti dei cittadini calabresi.
Oggi occorre ricreare dalle fondamenta i termini della vicenda calabrese, accentuando l’attenzione della politica, del Governo e degli strumenti di comunicazione non su una questione che identifichi e rappresenti nella sua unitarietà, ma anche nella sua astrattezza, la regione, ma sulle varie “questioni” che fanno ancora della Calabria una grave specificità, che pesa enormemente e forse in modo decisivo sullo sviluppo nazionale. Sicuramente la prima delle questioni riguarda la posizione geografica di questa “estrema diramazione meridionale della penisola italica” come la definì il grande studioso Lucio Gambi, con la sua complessa e difficile conformazione territoriale, quasi priva di aree pianeggianti, attraversata da “fiumi paurosi d’inverno e morti d’estate” sotto un clima con forti escursioni termiche e due sole stagioni, estate e inverno. Lo stesso sviluppo urbano ha dato origine a modeste aggregazioni anche per quanto riguarda le città più importanti, che non raggiungono per dimensioni, abitanti e importanza la qualità delle medie e grandi città italiane. Da qui la mancanza di una vera borghesia cittadina illuminata, se non residuale dell’antico ceto della grande proprietà terriera, che peraltro aveva da tempo trasferito il centro dei propri interessi nella vecchia capitale del Regno Napoli. La grande questione, ovviamente legata, alla sua collocazione e conformazione territoriale, rimane e si aggrava sempre di più, quella dei collegamenti e delle infrastrutture viarie e ferroviarie, che proporzionalmente presenta un gap, non solo rispetto al resto del paese, ma anche rispetto al primo decennio dell’Unificazione. Gli aeroporti, l’autostrada, la 106, la rete viaria interna, l’alta velocità, Gioia Tauro e la mancanza di un sistema portuale da diporto, costituiscono gli obiettivi minimi per un’agenda che volesse recuperare parte del divario con il resto dell’Italia. Per non parlare del Ponte sullo Stretto o di un collegamento stabile tra Calabria e Sicilia.
La questione della Scuola, delle Università, che rendono un grande servizio alla gioventù calabrese, ma che appaiono sempre slegate dal territorio e dalle sue esigenze di crescita culturale, ma anche di sbocco concreto per occasioni di lavoro certe nella regione. Il lavoro che costituisce la scommessa persa da tutte le classi politiche e dirigenti locali e nazionali almeno negli ultimi due secoli è la questione delle “questioni calabresi”.
Forse più della sanità, che ultimamente è diventata essenzialmente una questione mediatica, sottratta all’impegno e alla valutazione dei professionisti e dei competenti del settore, mentre i problemi si aggravano e i calabresi continuano a curarsi fuori dalla regione.
Non è certamente residuale la questione criminale legata alla crescita dirompente della ‘ndrangheta e alla sua espansione nei gangli vitali della società calabrese, ma anche nazionale. Ma appare riduttiva la risposta al problema lasciata solo alle Forze dell’Ordine e alla Magistratura, abbandonando la strada della crescita economica, sociale, civile e culturale. Che dovrebbe essere il terreno di coltura privilegiato della politica. Che poi è l’ultima delle grandi “Questioni Calabresi”. Ma anche la più importante.
Buona Pasqua!